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dosi d’invidia, di vanità, di superbia: pensava a Luca e chiamava «peccato d’intolleranza» l’ostilità ch’ella nutriva per lui.

Finalmente il canonico Bellìa, in mantellina violacea, uscì dalla sagrestia e s’avvicinò al confessionale, camminando a capo basso, con le sopracciglia aggrottate, un po’ curvo, come oppresso dal peso dei peccati non suoi.

Quando Gavina s’inginocchiò davanti alla piccola grata sentì un lieve capogiro; vide innanzi a sè un tenebrore violaceo, come di cielo tempestoso, e udì un sospiro, una voce tetra.

— Dite! Quanto tempo è che non vi confessate?

— Quindici giorni.

Dopo una breve pausa la voce tetra riprese energicamente, in modo che la domanda pareva rivolta ad uno che da anni ed anni fosse vissuto nel peccato mortale:

— Che avete fatto durante questo tempo?

Ella cominciò, piena di terrore ma anche di speranza, a poco a poco esaltandosi come il malato che spera di guarire dopo una pericolosa operazione. Cominciò dai «peccati piccoli» vanità, disobbedienza, intolleranza, parole inutili, chiacchiere oziose, compiacenza nell’ascoltare le persone maldicenti, tedio nel fare il bene! Il canonico sospirava e insisteva:

— Altro?

Ella disse che aveva dubitato dell’esistenza