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naristi presero posto intorno al coro, e Priamo, abbandonato lo strascico del vescovo, non pensò ad altro che a cercare la fanciulla con lo sguardo. Pareva che egli non vedesse altro che lei, nella chiesa sfolgorante di luce e di colori, ed ella si sentiva mancare, sotto quello sguardo, ma le pareva d’essere la più corrotta fra le donne, causa di peccati, di ribellione a Dio, e avrebbe voluto piangere d’amore e di rimorso.
Nel pomeriggio ella accompagnò la dama a far visita al canonico Bellìa, compaesano dell’ospite dei Sulis.
Il confessore di Gavina viveva in una casetta quasi fuor del paese, con una sua vecchia parente ancora ingenua e semplice come una bimba. Gavina, che fuori e dentro del confessionale aveva una viva soggezione e quasi una misteriosa paura del suo austero confessore, sedette in un angolo della saletta che pareva una cappella, e stette silenziosa, rigida come una delle cento statuette sacre che la circondavano. Le donne chiacchieravano, ingenue ed amabili; il canonico Bellìa, alto e curvo, col viso olivastro solcato da rughe profonde, ascoltava senza mai sollevare le palpebre livide, e ogni tanto aggrottava le folte sopracciglia grigie, come disapprovando i discorsi, pur tanto innocenti, delle due donne. Solo una volta sorrise, quando la sua parente disse: