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bare, e ne parlavano come i malati che hanno una gran sete.

— Paska, signora Gavì, avete mangiate molte pere? — domandarono, vedendo Gavina e la serva attraversar la viuzza.

Gavina non amava tutta quella gente dal linguaggio libero, quelle donne sporche e golose, quegli uomini che non rispettavano la roba altrui, e quindi passò in fretta, stringendo il braccio a Paska: ma giunta allo svolto, tra la viuzza e lo stradale, si fermò davanti al portone spalancato di una casetta bianca, meno misera delle altre. La luna illuminava un grazioso quadretto, al quale serviva di cornice l’arco del portone: su uno sfondo scuro d’atrio si scorgevano, davanti a una rozza mangiatoja, due buoi neri macchiati di bianco e un asinello grigio; più in qua sedevano, su una panca di pietra, un uomo anziano, calvo, con una lunga barba grigia intorno ad un viso nobile e calmo, ed una fanciulla il cui piccolo viso cereo, circondato da una benda nera, sarebbe parso cadaverico senza l’ardore e lo splendore di due grandi occhi verdastri, lunghi e felini. Con una figura di bimbo il quadretto sarebbe parso quello d’un presepio.

Quando vide le due donne la fanciulla si alzò di scatto e i suoi occhi brillarono alla luna.

— Michela, vieni con noi? — disse Gavina. — La lasciate venire, zio Bustià?