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sepolcro di viventi; l’aria stessa, profumata da un mazzo di fiori deposto sulla «console» pareva rinnovata dal soffio di una vita nuova. I libri si erano come svegliati e raddrizzati, entro la loro nicchia di vetro. E la Venere a cui Gavina aveva tolto il mantello azzurro, sorgeva nella sua primitiva nudità, pura e candida sul marmo bianco come sopra una cima nevosa.

Una sorda irritazione agitava il canonico Sulis: Gavina se ne accorgeva e si ritraeva nell’angolo del sofà, quasi paurosa che egli, come un tempo, le tirasse i capelli. Il canonico Felix si rivolse placidamente a lei, domandandole:

— Fuori Porta Pia ci sono fabbricati nuovi, adesso?

— C’è tutta una nuova città. E un’altra ne sorge ancora più in là, verso Sant’Agnese.

— Fino a Sant’Agnese! — egli disse con meraviglia. Poi parve ricordarsi. — Sì, sì, ho sentito.... Ho letto.... Bene! bene! lo sono stato a Roma nel 1869!

Riferendosi a quel tempo, e come se Gavivina fosse la prima persona reduce da Roma che egli vedesse dopo quel suo viaggio, cominciò a domandarle notizie di cose che aveva veduto allora.

— È tutto sparito! — ella disse con ironia. Ma egli non diede segno di rimpianto; anzi constatò placidamente: