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all’improvviso, allo svolto della strada, apparve un paese incantato. Palazzine gialle, sorrette da portici eleganti, sorgevano fra piccoli giardini i cui viali erano cosparsi di rena dorata: statue e bassorilievi di marmo decoravano le facciate e i frontoni; le terrazze bianche scintillavano al sole, e fra le palme nane e i piccoli abeti e nello sfondo dei porticati sorretti da colonne che parevano di bronzo si scorgevano le linee della campagna, arrossate dal tramonto, e i profili cerulei dei monti lontani.

Francesco e Gavina penetrarono in questo luogo che sembrava un rifugio di poeti felici ed era invece la città del dolore. Entrando in uno dei padiglioni ella sentì subito quell’odore sgradevole che rendeva soffocante l’aria del gabinetto medico di suo marito, e provò un senso di ripugnanza e di paura. Non aveva mai veduto un ospedale: s’aspettava di udire grida e gemiti, e fu sorpresa nel sentire, su per la scala di marmo, uno scroscio di risa, un chiasso giovanile. Era giorno di lezione; gli studenti salivano rumorosamente le scale, e in mezzo a loro una donna giovanissima, alta e pallida, con un mantello scozzese grigio e bianco, rideva, e saliva in fretta, accerchiata e quasi spinta dai suoi compagni.

Gavina la guardò a lungo, con diffidenza e curiosità. Ecco dunque una medichessa una