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do della finestra, accanto alla quale Gavina macinava il caffè, pareva davvero un angolo di oasi. Si vedeva un enorme cactus grigio, irto sul verde lucente di un giuggiolo; tra le foglie di una palma tremolavano i fiori rosei di un oleandro, e davanti a una macchia cinerea d’assenzio cresceva una pianticella d’arancio, carica di frutti che sembravano brage sopra un mucchio di cenere. L’ombra del pergolato rendeva più dolce quest’angolo dell’orto, al di là del quale, tra le foglie del cactus, si vedevano le distese desolate dei cavoli grigi corrosi dai bruchi.
Nel silenzio caldo del meriggio s’udiva lo scalpitare del cavallo di Luca, e le voci allegre dei giovani sfaccendati che tutti i giorni, verso quell’ora, si riunivano nel cortiletto della zia Itria per giocare alle carte. Gavina canticchiava, e quelle voci insolenti e quelle risate grossolane riuscivano a farle dimenticare i cacciatori. Ora le pareva di vedere i giovinastri riuniti intorno alla vecchia obesa che se li teneva buoni — diceva Paska — per paura che una sera o l’altra visitassero i suoi magazzini di frumento.
Quelli, sì, erano veramente peccatori di prima qualità, — come diceva il canonico Sulis, — quasi tutti ubbriaconi, viziosi, reduci dal carcere.
— Son figli di Dio, lasciateli vivere, — diceva la zia Itria, — il mondo è largo.