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ce solo con la sua chioma intatta descriveva un’ombra rotonda. Ella s’appoggiò al muro, guardò la luna, guardò le montagne lontane, marmoree sul cielo azzurro, e di nuovo pianse.
Soltanto allora Francesco parve accorgersi del turbamento di lei: pensò all’addio che ella in quel momento dava alle poetiche notti della sua fanciullezza, e si commosse.
— Andiamo!... non piangere, — pregò attirandola a sè.
Ma Gavina pianse più forte, nascondendo il viso sul petto di lui.
— Adesso.... adesso.... — pensò. — Adesso devo dirgli tutto....
— Andiamo, finiscila! Perdonami, cara; vedi.... mi fai piangere come un bambino. Rientriamo..
La condusse come una cieca, ed ella non ebbe il coraggio di parlare, di rattristarlo oltre. Rientrarono piangendo assieme come due amanti infelici.
L’indomani mattina il canonico Sulis, a cui Francesco aveva fatto sapere che gliene avrebbe dette «delle belle» annunziò che non voleva e non poteva confessare il suo futuro nipote: non voleva saper nulla, lui; nè belle nè brutte; voleva conservare l’illusione che Francesco fosse un «ottimo giovane».
Allora Gavina condusse il fidanzato dal canonico Bellìa, che accolse la confessione dei due giovani sposi con la stessa tragica severità