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La vocina dolce della piccola vedova la svegliò dal suo sogno.
— È tardi, anima mia: non vai a vestirti?
Francesco doveva arrivare alle cinque. Gavina risalì nella sua camera e indossò un vestito di panno violaceo, il suo primo vestito elegante; e guardandosi nello specchio, al chiarore del tramonto fresco e limpido che ancora illuminava la camera, le parve di essere «un’altra». Quasi felice di questa prima trasformazione scese correndo le scale, ma mentre attraversava l’andito si fermò turbata.
Il postino batteva furiosamente alla porta, e i suoi colpi rimbombavano per tutta la casa. Ella non aspettava lettere, ma capì subito che quella che arrivava era di Priamo; e quando aprì la porta e il postino le diede un plico sigillato, ella non battè palpebra, ma s’irrigidì tutta. Rientrò nella saletta per firmare; guardò la busta coperta di sigilli, e uno sguardo selvaggio brillò nei suoi occhi. La lettera voluminosa non era certo un semplice augurio: era tutto il passato ch’ella credeva di aver distrutto; il passato che rinasceva dalle sue ceneri come un fuoco fatuo nei cimiteri.
Ma ella provò l’impeto di crudeltà dell’assassino che vuol finirla con la vittima riluttante; senza aprire la lettera vi scrisse due parole sopra, poi così intatta la chiuse entro un’altra busta. E la sua mano non tremò nello scrivere un’ultima volta il nome di Priamo.