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sotto di lei stendevasi il tetto della cucina, coperto di ciuffi d’erba secca e di rami di vite sfuggiti al pergolato sottostante, e più giù l’orto invaso da una vegetazione tropicale. Fra le distese di cavoli grigi, corrosi dai bruchi, accanto al muricciuolo a secco, al di là del quale v'erano altri orticelli e cominciavano i declivi della vallata, un elce alto e solitario dava a Gavina l’idea di un esule cacciato via dai boschi della montagna. Gruppi di casette nere, che pareva si sostenessero le une con le altre per non cadere nella valle, si delineavano a destra dell’orto; e sul suo promontorio grigio la cattedrale scura dominava il paesaggio.

Gli occhi di Gavina non si fermavano in basso: guardavano l’orizzonte, del cui splendore parevano soffusi. Montagne di granito e di calcare, e più in là di schisto e di manganese, cerulee e rosee al mattino, rosse e violacee al tramonto, velate di vapori cinerei in quell’ora calda del meriggio, chiudevano l’orizzonte come ciclopiche muraglie in rovina.

I profili più lontani, vaghi e quasi diafani come nuvole e che apparivano bianchi di neve per tre quarti dell’anno, conservavano ancora, sulle cime più alte, come dei cappucci di madreperla.

Ella fissava sempre, quasi affascinata, quell’orizzonte così chiaro da parer argenteo. Sapeva che dietro la muraglia delle montagne