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V

DIFESA DI LUIGI SETTEMBRINI

dettata innanzi la corte criminale di napoli
il dí 9 e 10 gennaio 1851

I

Quando il procurator generale mi richiedeva a morte, i miei figliuoli, che dalla tribuna udirono le sue parole, discesi giú nel carcere piangendo, ed abbracciandomi mi dissero: «Padre che delitto avete fatto? Perché vi vogliono far morire?» Io per non ispegnere in essi troppo presto i germi di virtú, li benedissi, e risposi loro, che confidassero nei giudici. Confidando adunque in voi, o signori, e volendo anche da questo sgabello dare agli infelici miei figliuoli un insegnamento, che forse può essere l’ultimo, io vi dirò brevemente alcune parole in mia difesa; non per aggiungere alcuna cosa a quello che disse il dotto e cordato mio difensore, ma perché la legge mi dá questo diritto, ed io voglio usarne.

Il rispetto che m’incute la vostra presenza, la naturale mia verecondia, l’estremo pericolo che mi sovrasta e questo momento solenne e terribile mi turbano il cuore e mi fan tremare la mente. Onde io vi prego di ascoltarmi benignamente, e di non voler prendere in senso sinistro, se qualche parola potrá sfuggirmi dal labbro, che non meriti la vostra approvazione. Attribuitela piuttosto alla coscienza dell’uomo onesto, che si sente crudelmente trafitto: io voglio difendere me, non offendere, né accusar nessuno. Pensomi che vedeste con quanta serenitá di animo e di volto ascoltai la requisitoria del procurator generale, e le sue parole che contro di me furono piú acerbe che contro gli altri. Né io me ne dolgo, dappoiché se io son reo, le merito, se sono innocente non mi toccano. E son certo che lo stesso pubblico accusatore, dopo le cose dette nella difesa, se dovesse sedere giudice parlerebbe e voterebbe altrimenti.