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LXVII

(Trepidazione).

Santo Stefano, 7 ottobre 1858.

La tua condizione, o Gigia mia dilettissima mi fa dolore grande, e quando penso che tu da un giorno all’altro puoi essere carcerata mi si spezza il cuore. Io credo che tu non debba affatto presentarti, ma tenerti nascosta diligentemente, e non in casa tua, ma in altra non conosciuta, se no sarai carcerata certamente. È cosí facile ad una donna stare nascosta, che tu guardandoti bene puoi stare sicura interamente: ma non in casa tua, né in casa di parenti: se è possibile fitterai una casetta e cambierai nome.

È bello dire: «Non m’importa che io vada carcerata, perché non ho fatto nulla, e infine dovrò uscire». Per te, per la tua salute cosí male andata il carcere sarebbe duro assai, o Gigia mia, e poi potresti infine essere mandata in esilio, il che tu tanto temi. Bisogna adunque che tu ti tenga nascosta per altri due o tre mesi, durante i quali si potrá vedere a che si mettono le cose. Che si dice dell’amnistia? Io non ho potuto sapere nulla di certo fra tante chiacchiere che si dicono, e Peppino mi ha scritto che questo è il voto universale, ma non sappiamo se sará esaudito. Se dunque vi sará amnistia, tu verrai meco e tutto sará accomodato. Se poi per disgrazia sei arrestata prima di una risoluzione qualunque, di’ francamente la veritá, che tu non sei andata in Piemonte per cospirare, né per portar carte, né cartucce, né cannoni, ma per tuo figlio: che per tuo figlio sei andata a Torino, hai parlato al ministro, hai chiesta la cittadinanza, e non hai niente ottenuto, e te ne sei tornata. Di’ la veritá schiettamente, di’ che hai fatto, con chi hai parlato, e chiedi che si scriva, si chiarisca ogni cosa, e se si trova delitto, che vuoi essere punita.