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XIII

Il carcere di Santa Maria Apparente.

Il custode maggiore rispettosamente mi chiese il permesso di ricercarmi i panni indosso, volle che io gli consegnassi il danaro che avevo, ritenne il valigiotto e la chiave, mi prese il cappello, voleva togliermi anche il mantello, ma dopo averci pensato e averlo cercato e scosso ben bene me lo lasciò tenere. Finito questo, un carceriere tolse un mazzo di chiavi, lo sbattè a la porta, entrò gridando: «dentro dentro», e poi che ebbe chiusi tutti i prigionieri nelle loro stanze, tornò, e pei vuoti corridoi mi menò giú in una di quelle stanze che si dicono criminali, e questo criminale aveva nome secondo trapasso, perché di lí si passava per entrare nei criminali interni. Questo trapasso illuminato da una finestra alta dal suolo era umido e freddo, con le mura ingrommate di muffa; aveva due poggiuoli di pietra, e non altri arnesi che un vase immondissimo, una lucerna di creta, un piattello, ed una brocca d’acqua. Rimasto solo, mi avvolsi nel mantello, e distesomi sovra uno dei poggiuoli, dopo breve pensare, vinto dalla stanchezza del viaggio, tornai ad addormentarmi.

Io non so perché, ma so che quando fortuna mi ha dato gli strazi piú crudeli e mi ha proprio sprofondato nell’ultimo abisso del dolore, mi sono tornati a mente quei pochi momenti di felicitá che ho avuto nella vita mia. In quel criminale e su quei sassi io sognai che tornavo a casa dopo un viaggio, e che il mio bimbo usato a riconoscere il mio scampanio gridava di dentro: «Papá, papá,» e mi correva incontro, e mi si attaccava con le braccia al collo, e mi dava quei baci che solo un padre sa quanto sono dolci, e mi pareva che con le braccia e coi piedi mi stringesse tanto l’omero ed il femore diritto, che io dicevo a la Gigia: «Toglimi questo