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VII

L’universitá.

La coscienza mi diceva: «Tu sei pure un ignorante; gli studi li hai fatti in fretta; scienze non ne conosci, di filosofia ricordi soltanto che cosa e idea, nel latino sei corto, in italiano non scrivi abbastanza corretto: bisogna rifarti da capo. Andiamo dunque nell’universitá, dove ci ha tanti professori, che insegnano tante belle cose. Bisogna acquistare buone e sode cognizioni, e poi lasciamo fare a Dio. Egli mi aprirá una via per viverci onorato. Si fanno tanti concorsi: se io ne vincerò uno, sarò professore anch’io, e avrò un ufficio per merito, non per favori e raccomandazioni». Andai dunque nell’università, e presi ad ascoltare vari professori.

L’universitá di Napoli è stata sempre una grande scuola gratuita di studi professionali, dove gli studenti sono liberissimi di entrare e di uscire o di non andarvi affatto; e pochissimi ci vanno. Chiunque si presentava, e pagava la tassa, e faceva gli esami, ed era approvato, aveva il suo diploma. Il governo ebbe sempre paura di ragunare in un solo luogo le molte migliaia di giovani che da tutto il regno convenivano in Napoli a studiare, e però non li obbligava ad assistere ai corsi, e li lasciava sparpagliare nelle scuole private, e teneva l’universitá come a pompa, perché c’era stata sempre, e non altro che un’officina da sfornare dottori. Questo produceva un male, ed un bene. Il male era che i giovani non si conoscevano né s’affratellavano fra loro; i professori per la raritá degli scolari si svogliavano benché valenti, e se togli qualcuno di molto grido, gli altri leggevano ai banchi; l’universitá non ebbe gran nome. Il bene, che a mio credere avanzava il male, era che l’insegnamento era liberissimo; la scienza