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ritorno al mondo 147


al principe, e gli erano grati per benefizi ricevuti, ma non potevano approvare tutti gli atti del suo governo, e le prepotenze della polizia, e l’onnipotenza del confessore monsignor Cocle. Alcuni sollevavano quistioni economiche, nelle quali era una celata censura del presente, e vagheggiavano l’unificazione monetaria in Italia; altri trattavano quistioni storiche, e Carlo Troya andava pubblicando i volumi della sua storia d’Italia; altri stabilivano in Napoli il primo asilo d’infanzia, quasi a rimprovero del governo che nulla faceva per rialzare la plebe; altri, specialmente il Puoti, si affannava negli studi della lingua, e nella lingua cercava suscitare il sentimento ed il pensiero italiano; altri, e fu Emmanuele Melisurgo, chiedeva di fare la ferrovia per le Puglie, e formava una compagnia di capitalisti, e rizzava la prima stazione, e pregò il re d’inaugurarla, ed egli promise, ma non vi andò, e il giorno appresso andò ad inaugurare la chiesa dirimpetto i Granili; e quella ferrovia non fu mai fatta, e Ferdinando di poi ne fu punito; altri finalmente notavano le stoltezze e le ingiustizie del governo, e ne parlavano senza paura, e lanciavano il motto che era subito ripetuto, e taluni anche fedelissimi non risparmiavano neppure il re. Il marchese di Pietracatella, presidente dei ministri, diceva in sua casa agli amici: «Io gliel’ho detto molte volte. Mettete in carrozza monsignore, e mandatelo ai confini: licenziate il gendarme, a cui avete dato troppo potere; dividete in due il mostruoso ministero dell’interno; ed il governo anderá senza innovazione. Noi leggi ed istituzioni abbiamo buonissime, gli uomini che si scelgono sono cattivi. Ma egli non vuol sentire». «È lui la cagione di tutti i mali», diceva Giuseppe Caprioli, giá segretario del re, e presidente della consulta, e divotissimo ai Borboni; «è lui che non sa fare il re, e rovinerá sé stesso ed il regno».

Stavano cosí le cose in Napoli quando ci venne un libro che fece una rivoluzione profonda in tutta Italia, il Primato del Gioberti. Noi eravamo servi, divisi, sminuzzati, spregiati dagli stranieri che ci dicevano una stirpe degradata, l’Italia terra di morti non di uomini vivi, non altro che un nome