Pagina:Settembrini, Luigi – Ricordanze della mia vita, Vol. I, 1934 – BEIC 1926061.djvu/145


XVII

Ritorno al mondo.

«Sei stato tre anni e mezzo in prigione, hai perduto una cattedra acquistata con onore, la tua famiglia ha sofferto tutti i dolori e tutte le privazioni, tu ingoiate tante amarezze, e tutto questo perché? per una poesia, anzi per una pazzia. Hai fatto gran male a te ed ai tuoi, e qual bene hai fatto agli altri? Chi ti ringrazia? chi ti compatisce? chi ti conosce pure di nome? nessuno. Ma ti pare serio il proposito di ringiovanire l’Italia, di scoparne tutti i principi, e di ordinarla in una grande repubblica? E poi con le chiacchiere e le carte? E non guardi questo popolo, a cui tu sogni di dare libertá, che non la vuole e non la merita? Pensa un poco a te, ed a vivere quieto».

Cosí mi diceva taluno, ed aveva ragione allora. Io non rispondeva, né discuteva mai, perché in cose di sentimento non si discute: ma chi ama un’idea o una persona, piú soffre per lei, piú se ne innamora. Mi messi a lavorare, cioè ad insegnare: andavo per le case altrui, ché in casa mia non potei ottenere mai permesso di avere uno studio. Il commessario Marchese mi disse: «Cotesto non lo domandate neppure, non che sperare di ottenerlo mai». Ma un vecchione liberale del ’99 che mi voleva bene, mi disse: «E non sai tu che in Napoli tutto è permesso senza permesso? Non dare agli occhi, e fa come puoi». Io dunque presi ad insegnare anche in mia casa a pochi giovani, che non mai furono piú di dieci. Era una vita amara quella di andare correndo per le case dei signori, era il mestiere affannoso dello zampognaro, che viene, fa la sonata, e va via; ma io la facevo volentieri, e lavoravo sino a la stanchezza. Cosí campavo la vita, e cospiravo ancora, perché insegnare per me era cospirare e non piú a chiacchiere