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52 | scritti di renato serra |
fra cento, Pujàn: «Il giovane taciturno, la scure scintillante, l’aspro grido della vittoria umana su la natura selvaggia»).
E poi ha la malinconia filosofica; tratto in tratto interrompe il discorso per introdurre qualche sentenza; non abbandona una descrizione, una scena, una persona, senza aver soggiunto con quel suo tono d’oracolo una riflessione che vorrebbe esprimere la intima essenza delle cose, fissarne quasi per l’eternità l’anima e la ragione suprema.
Non basta ancora: quando ha bene commentato e filosofato, egli si piace di abbellimenti minuti. La sua prosa gli pare ancora troppo sciatta, in paragone dei versi di cui gli giunge la lontana melodia, e ricomincia ad adornarla: qui trova un nome senza aggettivo, e glie lo rende: qua apre una parentesi per una piccola descrizione di qualche accessorio dimenticato; aggiunge un po’ d’oro e un po’ di vermiglio alle tinte; arrotonda, lustra, rassetta.
Io non giurerei che le cose vadano proprio a questa maniera: ma son sicuro, che se andassero così, ne nascerebbe qualche cosa di molto simile a quanto abbiamo dinanzi. E valga il vero.
Questo è un ritratto di fanciulla. «Ell’era bionda, ell’era come il sole di maggio. In lei era il sorriso delle albe infinite, il balenio dei gioielli, il saettare della fiamma; ardente a un tempo e queta, impetuosa e mite; due estremi confini chiudevano l’anima sua e, nel segreto tesoro, era ogni sentimento ed aspro e squisito. Chiara a somiglianza dell’alabastro era Fiora d’Vurlàn, alla quale ogni parola d’esaltazione formava spontanea corona come a termine fisso».
È prosa poetica, che non rappresenta, ma vor-