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antonio beltramelli 51

materialmente a quelli dell’originale, senza rendersi troppo conto della loro convenienza; talora s’è fidato troppo al caso, all’orecchio. Parla dell’arrubinarsi di un viso; dell’aggricciarsi dei capelli: di «un folle popolo che si affolla e si accarna....». Certe parole suonano con rarità preziosa, ma non significano nulla; certi aggettivi, come ferrigno sopra tutti, e poi rossigno, ramigno, salcigno, certi verbi come sbisciare, saettare, e via via, cadono un po’ da per tutto, a proposito e a sproposito.

Allo stesso modo le composizioni di parole, le clausole, i periodi mostrano un’architettura sapiente, che non ha nè efficacia nè vera eleganza: il traduttore non sa accomodare i suoi modi ai bisogni dell’argomento. Il moto del discorso non rappresenta se non molto all’ingrosso, talora duramente e goffamente, il movimento che s’indovina del pensiero. Le immagini hanno di rado la freschezza delle cose nuove, la evidenza felice di quel che è nato a un punto con l’oggetto. Si sente che qualcuno le ha trovate dopo, a stento. C’è di peggio: il traduttore molte volte non ha saputo riconoscere la immagine sincera dell’originale, e si prova a sostituirla, con un’infilata di immagini generiche che le somigliano tutte: ma nessuna ce la rende.

Più fa il dabben uomo: ha in mente di render perfetto l’originale. La sua intenzione è ottima, ma io temo molto che debba menarlo all’inferno. Egli riprende i motivi che non gli sembravano sviluppati abbastanza, e li commenta lungamente, affastellando le frasi sulle frasi, le metafore sulle metafore: alla fine ogni cosa è diluita in un brodo lungo di luoghi comuni, di astrazioni, di vernici generiche. (Me ne capita sott’occhio una