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46 | scritti di renato serra |
cata del petto, che si dondola un poco assecondando con le spalle e le braccia corte il moto risoluto del passo, col collo taurino e la testa forte sotto il cappello largo e molle, egli è uno dei nostri agenti di campagna, un fattore del più buon ceppo romagnolo. Ma si volta; vi guarda, vi parla. E quando udite frasi rotte, una voce che pare senza accento; movimenti rapidi e profondi a cui la parola a ogni tratto vien meno; quando vedete su quella fronte tormentata, che mostra nei solchi fondi il travaglio e l’ansia dello spirito, quando vedete su quegli occhi grigi l’ombra del pensiero e del sogno trascorrere come l’ombra della nuvola nel cielo, allora sentite che è lui, Pascoli, il poeta.
C’è qualche cosa in quell’uomo, che par dei nostri, in quella spoglia corporale e massiccia, che non si sa definire; qualche cosa di vivo, di mobile, di creatore, un getto perenne di forza che sfugge a ogni usato vincolo, che lo pone in mezzo al nostro universo invecchiato come uomo libero e nuovo. È un poeta. Ogni timore, ogni inquietudine che la lettura poteva aver lasciato dietro sè, subito cade; in lui non c’è falsità, maschera, posa, artifizio. Tali cose non esistono; non possono aver luogo in quest’uomo ch’io vedo. Altri potrà giudicare, pesare, classificare; nella sua viva presenza io sento la schiettezza dell’anima. Si muove tra gli uomini disarmata e innocente come quella del bambino che pur ora ha aperto i vergini occhi sulle cose.
Come bambino egli potrà errare, smarrirsi, cadere, dar noia forse alla gente.
Ma qualche cosa di profondo è in quella timidezza, in quella forma che può sembrare un poco rustica, in quella inettitudine a certe parti della