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giovanni pascoli 45

stica, nella filosofia sociale, che uguaglia in un abbraccio lagrimoso Monsignor Bonomelli e le corporazioni dei maestri o dei medici condotti, insieme col Giappone e coi vasi da fiori; negli sfoghi contro i critici non meno che nei discorsi al popolo e nei volumi di critica dantesca, da per tutto vedremo espressa come in un vivo ritratto la varietà ingenua e tumultuosa di quell’anima. Nè ci meraviglieremo più molto se con quella voce e accento, ond’egli suol punteggiare i programmi delle prodigiose teorie politico-sociali (forse poi non c’è altro di strano che la sua sincerità nell’elevare a legge della vita nazionale quel che è vero della sua persona), con quella stessa prenda a bandire il suo sistema dantesco. Il quale potrebbe anche essere non così folle e futile come i dantisti di mestiere hanno voluto far credere. Ma questo argomento è una voragine che mi si apre davanti, e mi fermo a tempo, sull’orlo.



Credo sia tempo che anche il discorso si fermi. L’occhio è stanco di errare. Dopo tanta analisi, dopo tanto frugare, su tanti punti, senza averne trovato nessuno fermo, che non si tramutasse dileguando in vista, si sente ora il bisogno di riposare; di abbracciare alcuna volta con uno sguardo solo il nostro soggetto, e ivi far fine.

La fantasia mi suscita innanzi una persona viva: quella poderosa e prosperosa figura è dunque dei Pascoli?

Se vi cammina davanti, tarchiato nella smaltatura mezzana, con quella impostatura così spie-