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giovanni pascoli 41


Basta profferire certe parole, con un certo tono della voce, perchè tutto all’intorno spiri aura di Pascoli. E non parlo poi dei modi stilistici, delle clausole, degli atteggiamenti di ammirazione o sospensione, del movimento insomma del periodo poetico; poichè è troppo chiaro che la povertà e la monotonia di queste forme è grande in lui come in nessun altro scrittore. Impadronirsi della sua lingua poetica e prender l’abito del suo stile riesce, a chi voglia, la cosa più facile del mondo; e troppo bene ce n’accorgiamo tuttodì.

Come poi questo virtuoso, che può giocolare a sua posta con le difficoltà metriche e stilistiche più paurose, s’abbia a compiacere così largamente del luogo comune; come quest’uomo che odia la letteratura e intende fino allo spasimo nella espressione del vivo, del nuovo, del particolare suo, possa adagiarsi in quella languida povertà, come possa tollerare che i moti inimitabili del suo spirito, il suo pianto, il suo canto, diventino maniera banale e volgare, questo è un po’ difficile a spiegarsi.

E la gente suole, fra i due estremi, fermarsi all’uno o all’altro; gridare che il Pascoli è semplicemente un manierista, e anche, se s’invade il campo del sentimento, un Arcade, un posatore; ovvero che è un poeta meraviglioso, il più nuovo di tutti.

Ma se non si vuol cadere in questo contrasto, bisogna prender le mosse da un’altra parte. Bisogna ricordarsi che il Pascoli non è un poeta dei soliti, che scrivano per un pubblico e desiderino sopra tutto di far cose nobili e belle — lasciate ch’io mi contenti a questi cenni frettolosi e approssimativi. Il fine della poesia di lui non è