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giovanni pascoli 39

scolo, ritrovo il gran silenzio della campagna soleggiata, in cui si sente il villano che batte le falci, e sussulta l’aspro richiamo dei galletti di primo canto: ritrovo il suono dell’ore che giunge al perduto nel mare dei grani, e tante e tante più cose che lo spazio non mi consenta di ricordare.

Ma non è contento il Pascoli; non s’arresta. Ecco onomatopeie raffinate, in cui dalla sillaba, che dovrebbe valer come suono mero, scoppia, tremando e cangiando, senso spirituale o intenzione simbolica («finch.... fin che nel cielo volai», dice il fringuello; e «cantava, l’usignolo Addio dio dio dio dio»); ecco un concetto, che dovrebbe compire acutamente il discorso, tramutarsi al suono in materiale imitazione («chi che ripeta, chi che richiami»). Ecco accoppiamenti di parole, che dovrebber creare indicibile effetto, e riescono in fine sciocchi, come i disegni che l’umidore ombreggia sui muri; hanno forma e significato per chi si giaccia ancora tra veglia e sonno. Ecco il canto che passa «tra la morte e il sogno», ecco la «vertigine molle», ecco le «voci di tenebra azzurra»; ecco i colli, che rimandano lo sparo «urtata via via La loro autunnale agonia»; ecco «sussulto infinito nereggia di Galla....».

Ma guai s’io ceda alla voglia di spigolare fra le odi e gli inni; la lingua che il poeta vi parla è così arbitraria, così tesa oltre ogni limite e costume umano, che, massime fermandosi a pezzi e tratti brevi, è impossibile darne conto adeguato.

A ogni modo, per pochi cenni, si è pure abbozzata qualche immagine di poeta morbido e manierato, che dalla compiacenza del vago, dell’incerto, del simbolico giunge fino alle piccole soverchierie e alla oscura vanità della suggestione.

Quanta distanza da colui che mostrava per suo