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28 | scritti di renato serra |
e a morire col vecchio sileno, ha riso e sogguardato collo stormo dei fanciulli ignari fra i sassi dell’Acropoli, ha espresso dalla scena tradizionale un senso di mistero, di cui si pasce e consola non l’anima dell’antico Socrate o la nostra, ma solo la sua. Allo stesso modo ha ripreso e rifatto, per sè, Omero ed Esiodo, Bacchilide e Platone e Apuleio; esaltando, in ciò che di loro accettava, solo se stesso; ponendo e sciogliendo, nel dramma di Ulisse o in quello di Mirrine o di Psiche, il dramma di se stesso e il simbolo della propria vita.
Se avessi voglia a parlar di simboli e di trasfigurazioni potrei voltarmi agli Inni e alle Canzoni; e, infine, a tutto quello che gli è uscito dalle mani. Non c’è qualche punto di confessione autobiografica anche nei commenti danteschi?
Ma poi egli ha creato la sua vita con lo stesso animo che la poesia. Le circostanze han portato ch’egli fosse uno dei vinti, o almeno uno degli afflitti, degli oscuri, nel mondo: che i suoi giorni, dominati da un’ombra tragica, trascorressero fra il dolore grande e le angustie piccine, in povera casa, fra povere cose. Il suo travaglio fu per lunghi anni difficile e buio; egli dovette affaticarsi per campare, per avere il pane e il tetto, per farsi a poco a poco in un angolo del mondo tumultuoso un piccolo nido, in cui raccogliere le reliquie della sua vita dispersa dalla sciagura; dovè sentire il peso e il pregio di ogni pagliuzza, di ogni festuca, il valore che il poco prende per chi non aveva nulla, l’importanza di tante umili cose pur sospirate e sudate, i mobili della casa, il cibo cotto nei modi paesani sul proprio focolare, un po’ di respiro e di pace. Era stato battuto, ferito, schiantato; assassinato il padre, morta la madre