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giovanni pascoli 27


compie in piccoli miti, e i miti che si tramutano in simboli, e i simboli che riportano tutte le voci della sua poesia e i moti della sua anima a una intenzione sola; alla vita e al destino? Dovrò illustrare tutta quella gran parte dei suoi canti che è fiorita sul margine dei libri altrui come una trasfigurazione fantastica e simbolica? Poichè questo e non altro sono molti ramoscelli delle Myricae, e tutto, o quasi, il gruppo dei Conviviali.

Ch’io non vorrei però fosser confusi, al mio cenno fugace, con quella serie pur così ricca di dilettazioni fantastiche e ingegnose, che da non molti anni in qua si sogliono iscrivere, come appunto fu detto, en marge des vieux livres: dilettazioni di umanisti attardati, di spiriti ornati e squisiti, di poeti puri e di artisti, da Anatole France a J. M. de Hérédia, da A. Chénier a Leconte de Lisle e anche (intendendosi con discrezione) a Giosuè Carducci.

Il Pascoli non si contenta di alluminare, in qualche spazio vuoto del libro vetusto, una figurina come spiritello balzato sulla traccia della poesia ritrovata; non si gode di fermarsi su un punto sbiadito a rallegrare il colore e a ricalcare le linee del vecchio disegno; non si muove a mescolare con impeto lirico tra i fantasmi suscitati dalla lenta lettura la passione e il calore della sua anima nuova: egli non è un umanista.

Egli non s’interessa al libro, non si ferma sui luoghi consacrati dall’ammirazione dei secoli; trova in una frase, in una figura, in un’immaginazione qualche cosa che attira il suo sguardo, ed eccola nella sua fantasia rifiorir tutta nuova, mito e simbolo e parte viva della sua vita stessa. Ha letto il Fedone: d’un tratto egli s’è trovato nella piccola camera della prigione a parlare e a bere