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24 | scritti di renato serra |
ciale: il Pascoli si è servito del dialetto in quanto vi si sentiva dentro più schietto, più solo, più puro d’ogni impronta letteraria; in quanto quelle voci gli sonavano sul labbro più immediate, come eco dell’anima nuda.
E a questo gli sarebbe bastato ogni altro dialetto del mezzogiorno o del settentrione; così come a rendere il carattere del vivo, del vero, del particolare domestico e intimo, ogni sfondo di campagna e di usanze native avrebbe potuto, in una poesia simile alla sua, supplir la Romagna. Il Romagnolo è l’accidente; ma l’essenziale è l’intenzione.
A questa bisogna guardare. Tutti gli aneddoti e gli episodi, fra gentili e curiosi e bizzarri, che la gente ama raccogliere intorno alla persona del Pascoli, intorno ai suoi gusti semplici e alle sue abitudini singolari, intorno alla sua casa, ai suoi fiori, al suo Gulì; intorno a tutta la sua vita infine, dalle memorie tristi della giovinezza fino alla ricetta del risotto romagnolesco, che gli fa Mariù, non valgono a rivelarci dell’anima sua se non poco o nulla. Questi particolari, nei quali alcuno crede di trovare il segreto della poesia, sono per se stessi vani e insignificanti; essi prendono qualità dal suo spirito, che li trasfigura.
Vorrei dire che l’attitudine di questo spirito in faccia all’universo, è doppia e nella duplicità identica. Pensate a uno che parlando s’abbandoni ingenuamente al moto dei muscoli che forman la parola sul labbro; ma pensate che in quel punto stesso egli senta la parola suonare quasi nel vuoto, astratta da ogni uomo e da ogni senso; sì ch’ei debba cercare con inquietudine un valore in quell’accozzo di sillabe vane, e, fin che non ha potuto trovarlo e appropriarselo, non sia contento.