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giovanni pascoli 17

sole), dei decasillabi travestiti (Dunque, rondini rondini, addio! Dunque andate, dunque ci lasciate Per paesi tanto a noi lontani), degli endecasillabi frantumati (Ben fa, chi fa: sol chi non fa, fa male), e via via, in un infinito di stonature e di contrasti.

Se non che noi possiamo notare i termini di questi contrasti, come opposti poli: ma chi può descrivere fra l’uno e l’altro l’ondeggiare del suo spirito? Esso trema e vacilla come l’ago di una bussola folle.

Pare che in ogni qual cosa gli esca dalla bocca egli voglia sentir se stesso a pieno, tutto e solo; ma pur si compiace di sentirsi in quell’atto, e vi insiste, e vi fruga con quel raffinamento di sensitività, che è come un fascio dei raggi del sole attraverso una camera buia: le minuzie della impalpabile polvere vi si rivelano dentro e danzano splendide come le fila dell’oro.

Egli sogna e canta; ma quando più pare che al sogno s’abbandoni con tutta la ingenuità dell’anima, e già ceda alla voluttà piena del canto, ecco in quel punto egli è più vigile e cauto e accorto a discernere con la incredibile sottilità ogni variare del sogno, è fermo su se stesso a considerare una per una le modulazioni della sua voce e a meravigliarsi e a compiacersi....

Io penso alcuna volta la sua poesia come una nota sola dolce lunga pura moltiplicata e rifranta con mille stridule inafferrabili fioriture dal capriccio di una sottilissima eco. Ma questo si vede meglio nella prosa: dove poi manca la parte cantante, melodica, suggestiva, e il gioco del pensiero è nudo. È un ghirigoro che dà la vertigine.

Il suo pensiero non si svolge nel discorso; è tutto, come si direbbe, nei punti d’arrivo, nelle