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giovanni pascoli | 11 |
Provate a leggerne qualcuno a caso:
O stolti, quelle trombe erano terra |
Salpava l’eternale àncora e mosse |
i fili di metallo a quando a quando |
Son versi che possono contentare qual più qual meno; alcuno è veramente stupendo; ma tutti hanno qualche cosa di comune e di particolare, il suono, l’indefinibile aura pascoliana.
Pare che il loro effetto maggiore nasca dalla intensità del ritmo che li fa spaziosi e vibranti; tutta la loro consistenza è negli accenti che spiccano una battuta dall’altra, che creano fra le parole come un vuoto in cui ognuna si prolunga con vasta eco sonora. Rileggete quello che ho sottolineato, e vedrete se è vero.
In termini tecnici, la loro ragione è meramente quantitativa; il verso è sentito come un accordo di tesi profondamente calcate e di arsi vibranti, come musica pura.
Ma intendiamoci bene; musicali, si dice, non melodiosi; poichè a considerare le sillabe e i suoni in se stessi, quanti ce n’è invece duri aspri spezzati difficili!
E vorrei dire che la loro melodia non nasce semplicemente e materialmente dai suoni: nasce da ciò che egli, facendoli, li ha cantati; se li è cantati.