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418 | scritti di renato serra |
novre, che mi parlavano da uguali a uguale, così diversi, colla frusta o il badile in mano, la camicia aperta e la faccia in sudore, corrugata un poco dal dubbio; dura e chiusa, anche alla luce del sole. Sentivano la risposta, attenti; ci scambiavamo qualche altra parola indifferente; un saluto breve; e via. Nessun segno di commozione o di entusiasmo. Bastava essersi riavvicinati per un momento.
E così tutti gli altri che mi han fermato, interrogato tante volte quest’inverno. Tanti che avevo dimenticato, tanti che non avevo mai conosciuto; ma tutta gente che dovrebbe andare, se viene quel giorno; si sentono più vicini, intanto. Eran sempre le stesse domande: «che si vada? e quanto si tarda? e quand’è che ci ritroviamo?», qualcuno sorridendo aperto, qualche altro rassegnato, qualcuno anche sospettoso, con un desiderio torvo di sentirsi rispondere di no. E sempre le solite risposte: «ma, se ci tocca, si va tutti questa volta. — Quasi, quasi, credo che ci siamo proprio. — O prima o dopo, quando bisogna andare, si va. Ci troveremo....», con una reticenza istintiva, che mi spingeva a velare il mio desiderio per avvicinarlo alla loro preoccupazione, senza offenderla. Tanto, quello che conta non è la parola; è l’occhiata di complicità che ci scambiamo e che ci unisce, anche su rive opposte e con animo diverso, gente legata alla stessa sorte, che s’incontra e si riconosce. Tutte le parole son buone, quando il senso di tutte è uno solo: siamo insieme, aspettando oggi, come saremo nell’andare, domani.
Fratelli? Sì, certo. Non importa se ce n’è dei riluttanti; infidi, tardi, cocciuti, divisi; così devono essere i fratelli in questo mondo che non è