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412 | Scritti di Renato Serra |
Me ne accorgo, che ho agio di guardar tante cose. L’erba, per esempio; questa vecchia erba stinta, che par che aspetti le prime acquate brillanti, fra argento e sole: ma non è vecchia; è la luce spenta, senza riflesso che la fa parere; c’è tante puntine sottili, e gambi nuovi, e foglie e lancie di una tenerezza appena dispiegata; ma tutto è un po’ piatto, tisico, senza succhio e senza vernice. La polvere che ci soffia sopra è intonata a quella freddezza. Il vento la butta anche nei miei occhi con una puntura di ironia. Sicuro, c’era qualche altro fastidio, prima di questo grano di polvere che non arrivo a stropicciar via dall'angolo della palpebra; c’era.... una lacrima calda sul mio dito. E il fruscio della polvere che m'ha oltrepassato oramai e corre via dietro a me come un piccolo turbine. E poi la pausa del vento e il ritorno dei colori e delle forme nelle mie pupille libere. Il verde magro della proda, e poi tutto il pendio, attraverso la siepe brulla; grano sopra, prati e prati; giù, fino in basso; verde raso, a gradi freddi in ombra. E quella casa là di fronte improvvisa, come uno squillo; la facciata con l'intonaco crepato, e le finestrine buie; una pennellata d’oltre mare, così crudo, così fresco. Lo sfondo di aria tinta ne prende dei riflessi caldi, quasi di rosa. Finalmente! So che cosa è questa.
I colori che rincrudiscono sulla terra nuda e netta, l’ombra che si muove, una zona di tepore diffuso e brillante sotto le nubi gonfie; il verde che si rinfresca e il turchino che s’agghiaccia; luce di primavera nel finire del giorno.
Ecco quello che importa. Resto così sospeso ad assaporare la mia libertà nelle sensazioni che l’attraversano; erranti, senza corpo: aria lavata e vuota: colori muti. Libertà.