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esame di coscienza di un letterato | 409 |
qualche bene, è forse, fra tante altre, una delle cose più degne.
Non c’è mica bisogno per tutti del genio aspro e assoluto di quello che rideva a vedere i Prussiani sedere e trionfare nello squallore del suo vecchio paese; li osservava con un cinismo libero di ogni umanità, candido e ingenuo, e ne augurava degli altri.
Aggiungerò che io non saprei neanche avere nel nostro lavoro la fiducia superba di alcuni miei vicini; vivo troppo fuori del secolo, per credere a una conquista dell’assoluto, che debba essere la parte esclusiva di questa generazione.
A parte ciò, devo pur riconoscere che la nostra letteratura è una cosa non affatto futile nè inutile. Non ce ne sono molte altre che valgano meglio, e che sian degne di più rispetto, in Italia.
È una realtà. C’è intorno a me una semplificazione, un istinto di riduzione all’essenziale, una moltiplicazione di esigenze, che sono un tormento e una forza viva innegabile. Non importa se ci sia in tutto questo una astrazione e una povertà non sempre volontaria, in cui io ritrovo tanto di me stesso, che mi impedisce di essere giusto. Insieme coi difetti, che sono un poco anche i miei, ci son pur qualità vere e progresso e suono e felicità, che non mi appartiene e che non posso negare.
E allora, dopo tanto tempo che ho perduto a prender sul serio ciò che non mi riguarda, il meglio che mi resti da fare è forse di tornare, per quel tanto che mi è concesso, proprio a quella letteratura, che ho sempre considerata la cosa più estrinseca e meno compromettente.
Dopo aver lasciato tutto il resto, questa è l’unica parte che mi rimane: e peggio per me, se