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esame di coscienza di un letterato | 401 |
e ristretti; e sotto il cielo vuoto si sente solo la stanchezza delle vecchie strade bianche e consumate giacere in mezzo alla pianura fosca.
Non vedo le traccie degli uomini. Le case sono piccole e disperse come macerie; un verde opaco e muto ha uguagliato i solchi e i sentieri nella monotonia del campo: e non c’è nè voce nè suono se non di caligine che cresce e di cielo che s’abbassa; le lente onde di bruma sono spente in cenere fredda.
E la vita continua, attaccata a queste macerie, incisa in questi solchi, appiattata fra queste rughe, indistruttibile. Non si vedono gli uomini e non si sente il loro formicolare: sono piccoli perduti nello squallore della terra: è tanto tempo che ci sono, che oramai sono tutt’una cosa con la terra. I secoli si sono succeduti ai secoli; e sempre questi branchi di uomini sono rimasti nelle stesse valli, fra gli stessi monti: ognuno al suo posto, con una agitazione e un rimescolio interminabile che si è fermato sempre agli stessi confini. Popoli razze nazioni da quasi duemila anni sono accampate fra le pieghe di questa crosta indurita: flussi e riflussi, sovrapposizioni e allagamenti improvvisi hanno a volta a volta sommerso i limiti, spazzate le plaghe, sconvolto, distrutto, cambiato. Ma così poco, così brevemente. Le orme dei movimenti e dei passaggi si sono logorate nel confuso calpestìo delle strade; e intorno, nei campi, nei solchi, fra i sassi, la vita ha continuato uguale; è ripullulata dalle semenze nascoste, con la stessa forma, con lo stesso suono di linguaggi e con gli stessi oscuri vincoli, che fanno di tanti piccoli esseri divisi, dentro un cerchio indefinibile e preciso, una cosa sola; la razza, che rinnova attraverso cento generazioni