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esame di coscienza di un letterato 399

l’uomo o alla sua opera, se portassimo nel valutarla qualche criterio estraneo, qualche voto di simpatia, o piuttosto di pietà. Che è un’offesa: verso chi ha lavorato seriamente: verso chi è morto per fare il suo dovere.

Parlavo prima di letterati e pensavo a quel povero caro Péguy. Come avremmo voluto, dopo aver saputa la sua fine, accordargli per un momento un poco più di quella poesia e di quella felicità a cui tendeva la pena della sua vita! Mi ricordo di avere riletto molte pagine del suo Mistero con una attenzione e una premura quasi dolorosa; per scoprire finalmente nella sincerità di quel linguaggio così laborioso e scrupoloso e tenace la bellezza e la forza lirica che non avevo mai saputo veder prima: che non c’è. Così ho seguitato a commemorarlo, sulle pagine un po’ scure e solide dei suoi libretti, dov’è scritta la sua giovinezza e la sua mistica e la sua battaglia, punto per punto, e passo per passo, e presa per presa, con quella complicazione che pare intricata e spezzata ed è semplice e aderente come il passo di un campagnolo sulla terra, ho seguitato a commemorarlo, con una malinconia che l’umiltà faceva più dolce. Nessun bisogno di ingrandire l’uomo che ha scritta Nôtre jeunesse, che parlava dei settantacinque così gracili smilzi damerini o di sè così nodoso rugoso contadino: la guerra l’ha fermato, l’ha coricato sul suolo del suo paese, calmo, fermo, superiore a tutti i nostri movimenti di un’ammirazione inutile come i rincrescimenti e le resipiscenze.

E mi veniva in mente anche Rolland, e altri di quella letteratura d’avanguardia, verso cui ho dei rimorsi di poca simpatia e di scarsa giu-