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le lettere | 347 |
smania delle riflessioni filosofiche, come certi personaggi di Victor Hugo, salvo la brevità e l’arguzia che a lui non manca mai; attacca di gran liti intorno alla critica e al futurismo e alla letteratura accademica, che il più delle volte sono soltanto un esercizio di fiato e di spirito, senza nessun proposito; c’è Croce, per esempio, che gli fa un’ombra terribile; ed è poi il suo maestro, nelle poche idee chiare che è arrivato ad avere sulla critica; tutto questo non supera il livello di una conversazione bizzarra e colorita, ma alquanto mediocre in fondo. E poi ci sono dei tentativi di poesia quasi in versi, molto infelici — Palazzeschi senza il movimento ritmico; ossia, senza più nulla che valga — : ci sono degli idilli e dei dialoghi e delle altre cose oziose. Ma infine viene il momento in cui Soffici esce dalla brigata e se ne va per il mondo; se ne va per il giardino granducale, o sulla spiaggia del mare lascivo, o sotto la pioggia di aprile: guarda una vacca che va al toro, o dei paperi che pescano nel loto, Monte Morello sotto la luna, o le nozze di due lumache; entra in un caffè, s’indugia dinanzi le vetrine coi nastri e le sete nella fissa luce elettrica; ricorda una donna, una sera, un fior di magnolia: o mette dei giacinti in un bicchier d’acqua. Scrive queste cose ed è una festa.
È inutile far delle riserve e delle attenuazioni. Si sa bene; non è un artista intero; gli manca l’analisi che è la seconda vita delle impressioni; è sincero ma non profondo nelle sue riflessioni, che son piuttosto lampi e rughe lievi, civetterie, o movimenti elementari di tristezza e d’umore. Gli manca sopra tutto la potenza di leggere dentro le anime e di crear persone salde, secondo la sua volontà: tutta una parte del suo giornale, che