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le lettere | 343 |
Viene in mente Oriani; l’uomo che somiglia più di tutti a Papini, nel bene e nel male, nella superficialità della cultura e nella ricchezza dell’ingegno, nella bramosia del successo volgare e nella scontentezza dell’animo strano, nell’ambizione di pensatore e nelle qualità di retore. Certo Papini non ha la potenza oggettiva e psicologica di Oriani, la mordacità e la penetrazione che giungeva attraverso il rancore fino alla superiorità; ma ha, per compenso limitato, una felicità di espressione imaginosa pittoresca e soda a cui il romagnolo ingrato non si potè mai avvicinare. La parola di Papini ha dei doni nativi di evidenza e di suono lirico. Non si tratta soltanto di franchezza fiorentina, che era anche nelle prime cose, un po’ saporita, e un po’ spassosa e un po’ insolente, come il vociare dei monelli e degli scolari, che con una parolaccia becera si credon di gridar forte al mondo la loro indipendenza spirituale; e la consuetudine necessaria coi classici di Carabba ha confermato e schiarito quella franchezza naturale. Ma le campagne e i ricordi nell’Uomo finito, così come le impressioni della strada e degli amici e del fiume sulla Voce, hanno una solidità di fantasia e una dolcezza di accento che è cosa rara. Ci sarà come al solito un po’ di bravura, e quella facile pienezza che trasporta nella corrente periodica e diminuisce un poco, continuando e compiendo, il risalto di certe parole più felici; Papini non ha la scioltezza delle impressioni di Soffici; piutosto che la trasparenza del colore egli possiede il taglio forte e preciso di una materia superbamente toscana, che fa pensare al Carducci. Parrà poco per uno che ha voluto qualche volta essere Dio?
Ma torniamo a Soffici, che è artista solo.