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342 | scritti di renato serra |
quecento, sopra i nasi o la pazzia, con altrettanto inutile abilità letteraria; a far molto, un certo cinismo freddo lo potrà avvicinare a figure bizzarre come un Franco o un Doni, che escono dal comune con la vita, ma restano con l’arte nei termini dell’accademia e dello sfoggio retorico.
Ma nell’Uomo finito Papini ha qualche cosa di più; sempre sommario e superficiale e ambizioso nella confessione che è piuttosto una tumultuosa. descrizione di se stesso, trova tuttavia nell’orgoglio esasperato e nell’insolenza stessa del cinismo momenti di stanchezza amara e di verità profonda; lagrime di passione gocciano sul viso maligno e sembrano creare nell’animo la solitudine di certe campagne penose, pietrificate e sconvolte sotto un cielo cattivo. Gli episodi acquistano una continuità, dialettica, e dal disordine nasce una musica. Allora si capisce che quel rumore superficiale che ci aveva turbato e infastidito fino a ieri, nascondeva qualche cosa di profondo: e risalendo quasi dall’ultimo libro agli altri, si trova, dietro il Papini del volgo, di cui noi abbiamo ritratto ancora per uso la figura antipatica, un altro Papini, di cui non ci potremmo sbrigare con la stessa facilità.
Lasciate pur stare quel che lui e Prezzolini hanno fatto e guastato nella gioventù — e non solo nella gioventù! — d’Italia, da dieci anni in qua; e solo Croce ha fatto di più: lasciate stare anche l’uomo rappresentativo di movimenti e crisi mentali.
Ma solo nelle pagine che ha scritto, nell’agitazione dei pensieri e nella fermezza delle parole, c’è tanto di sciupato e di perduto e tanto di trovato e incominciato, da comporre una figura che è singolare oggi e potrebbe riuscir grande, forse, domani.