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le lettere | 339 |
fra il comune e il delicato e il melodioso, che non somiglia ad altri e che piace. È questa piacevolezza che manca, per ora, a Baldini; i cui bozzetti hanno pure finezza di analisi e gioco sottile di sensazioni, non molto saporite, ma pulite e senza enfasi; se non che son cosa fredda, che non muove da una vera necessità interna di confessare o di raccontare.
Lontano, e da un’altra parte, si trova Jahier; che è rimasto quasi nascosto al grosso del pubblico in certi tentativi radi e alquanto oscuri, frammentari, che non hanno bastato a metterlo in vista e neanche a dargli coscienza netta dei suoi mezzi e del suo ingegno. Scriveva sulla Voce, degli stelloncini, un poco all’uso del primo Soffici, per il tritume delle minuzie e della toscanità più linguaiola che espressiva: questo non gli diminuiva la serietà e un tale fremito d’ansia nel render impressioni di cose vedute e frugate. Poi fece, a intervalli, bozzetti di intimità casalinga e paesaggi valdesi; cose belle. Contorte, nervose, affaticate da sospiri profondi di intimità e passione e tristezza umana, che si confondevano con un bisogno intenso di realizzare le sensazioni nella loro gioia piena e i moti dell’anima nella loro musica insofferente: spezzate dalla molteplicità delle intenzioni non tutte artistiche, rotte dalla cura dei particolari; ma belle a ogni modo, anche della felicità che non aggiungevano, con quegli effetti grigi così vivi e mordenti come le ombre di un mattino d’inverno sullo squallore delle pareti domestiche, con quel non so che di melodico e sensitivo e odoroso che si sprigionava dalle impuntature dello stile, come sotto le scarpe che pestano il sentiero e l’erba della montagna vera. Pare che si sia fermato lì. Ha scritto ancora: ma