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336 | scritti di renato serra |
volta di esser lettori sopra una pagina, ci fa corrugar la fronte con una ansia di nomini davanti alla pietà e alla oscurità sorda della vita. Pochi hanno mai parlato come lui delle madri e dei figli; dei vecchi e dei giovani.
Vicino al Panzini, per dignità e anche per finezza di lavoro, si trova l’Albertazzi; un altro carducciano mancato, che attraverso gli errores della letteratura ha trovato una personalità di prosa e di racconto, assai cara nella sua discrezione. È anche lui uno di quei letterati di seconda luce, come ne hanno avuti parecchi le nostre scuole secondarie, che lavorano a cose diverse, fra scuola e critica e erudizione, con molto garbo, e stampano inoltre romanzi e novelle, di cui si dice, che son scritti bene, con un significato della frase, un po’ diverso dal solito. La critica lo ricorda con stima, e il pubblico lo accoglie anche nei giornali e nelle riviste di moda con un rispetto vago, in cui non è entusiasmo, ma una certa soddisfazione e fiducia; nessuno lo metterebbe, per esempio, al disopra di Zuccoli, con le parole, ma nemmeno al disotto: si sente una qualche differenza, che può essere inferiorità di successo, ma non certo d’ingegno.
Come si sa, Albertazzi è uno scolaro del Carducci, che ritrasse dal maestro, oltre che la lezione consueta di italianità e di stile, anche la curiosità della storia, ma più come diletto e racconto che come studio scientifico e interesse umano: e non uscì dall’ideale carducciano per un pezzo, adattandosi a dei lavori solo in apparenza metodici di erudizione, ed esercitando con dei pastiches non molto felici la sua facoltà di narrare e insieme l’affezione e l’obbligo della tradizion letterata. Di suo aggiungeva, oltre che la