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le lettere | 335 |
che arriva nella sua sincerità a un odio non meno illusorio che naturale per ogni letteratura.
Il vero è che Panzini ha un temperamento nativo d’artista, ricco di movimenti bruschi e di voci fantastiche, non sempre felici e limpide, ma sempre schiette. La educazione letteraria da prima si è imposta a questa natura, semplificandola, riducendola a essere quasi solo una intensità e una risonanza pura del linguaggio volontariamente mediocre e tenuto all’esempio dei grandi: ma poi a poco a poco ha subito di più la forza della persona, che contrastava coi suoi crucci e con le sue nostalgie, con le illusioni e con le riflessioni, alla forma quieta dello scrivere e dell’osservare; e ne è venuta, anche nei bozzetti alquanto superficiali e nelle dilettazioni leggere, quella nervosa e interrotta armonia, quella luce a sprazzi liquidi e ombre spezzate, quel non so che di lirico e pieno, che è la qualità vera della bella prosa di Panzini; prosa viva, d’impressioni e di ritmo, di difetti e di grazia.
Oggi il progresso dell’analisi e della purificazione interiore pare in qualche momento più profondo. Le sue cose hanno perduto un poco di sapore e di fiore. Son più nude; esprimono meglio l’uomo che è debole, senza forza di giocare con le anime e di creare degli effetti secondo la sua volontà: sensitivo e ombroso; tormentato da un bisogno di affrontare e agitare dei problemi, in cui si rivelano certi limiti della sua cultura e della sua intelligenza; ma che sono terribilmente seri, per lui solo.
In questa solitudine la parola è diventata ancora più intensa e più semplice; crea delle sensazioni definitive, e dice delle cose di una umanità commovente, così vera che ci fa scordare qualche