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le lettere 315

e riflessi quasi di nobiltà artistica; così come nei fabbricatori, e massime alle prime cose, si posson distinguere varietà personali della fisonomia e dell’educazione. Ma l’uniformità dello stampo finisce presto a uguagliar tutto; e la signorina sentimentale, il dilettante di provincia, la maestra spostata, l’ex-seminarista e l’impiegato postale scrivono assolutamente le stesse pagine del letterato di professione e del giornalista che è stato a Parigi.

C’è un po’ di tutto in questo stampo, e niente, alla fine. C’è del Maupassant, e dello Zola, prima di tutto; e poi del Verga. Ma c’è anche del D’Annunzio e del France; per non parlare di tutte le influenze secondarie, utilizzate confusamente.

Il taglio e l’impostatura della narrazione è in genere quello della grande novella francese di trenta anni fa (Maupassant); e così la ricerca del rilievo realistico nei particolari, la introduzione dei personaggi per mezzo di note materiali e precise; pelo, color degli occhi e della pelle, bocca, mani e via via. Invece il dialogo e la psicologia è notata piuttosto alla maniera del Verga; con quelle frasi all’imperfetto, e quei costrutti impersonali, un po’ rilasciati.

D’Annunzio si sente, com’è naturale, nella lingua; il vocabolario è sempre il suo; l’uso giornalistico lo ha sveltito, ma non gli ha tolto quell’impronta prima di precisione e di ricchezza un po’ fredda. Invece i congiungimenti delle parole, la ricerca di certe opposizioni e ironie puramente verbali, l’accento di certe sentenze, vien direttamente da France; direttamente, dico, attraverso la moda che ci fu pochi anni addietro di leggere e imitare France, e che si è conservata per inerzia e trasmessa, in certi atteggiamenti di stile, anche