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274 | scritti di renato serra |
Essa dice la moralità di questo momento; a cui difficilmente si potrebbe trovare un paragone così per l’ambizione delle apparenze e per la benignità delle circostanze, come per la povertà intima dell’animo e dell’arte.
Forse non abbiamo ancor quasi sotto gli occhi l’episodio rivelatore, che raccoglie in un punto solo tutti i caratteri e le contraddizioni di questo stato di cose; la letteratura della guerra?
Un fatto d’importanza politica, nazionale ed europea, come forse non c’era stato da quarant’anni; una commozione degli animi e un cambiamento nella coscienza, una prova improvvisa e intera di tutti i nostri mezzi, dall’esercito alla stampa, dalla bravura semplice degli individui alla serietà e alla disciplina della nazione, con tutti i contrasti dell’umanità e del patriottismo, dell’interesse e dell’entusiasmo, della retorica e della verità, in tutti i campi, una esperienza critica in somma che ha assaggiato e scoperto e rimosso tutto in Italia, uomini e cose, bene e male: questo è quello che ci sta sopra, fra il 1911 e il 1913.
E che cosa se ne ritrova nella letteratura? Ahimè, li sappiamo troppo bene tutti i clichés dei corrispondenti viaggianti, diventati l’ideale e il modello di tutta la prosa e di tutta la poesia che si stampava in Italia: una vernice unica e uguale, lucida, piatta, grave, distesa su tutte le cose, una vernice di enfasi e di convenzione, di entusiasmo spropositato e di vanità monotona, di falsità letteraria e morale, di speculazione meschina, che metteva le novelle e le canzoni e perfino i libri di storia antica o di filosofia al livello, anzi al di sotto del cognac Tripoli e del lucido da scarpe Bengasi. E in tutto questo torrente di eloquenza