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le lettere 269


È la poesia nostra: non potevamo essere giusti con essa. C’era troppo di comune fra l’ebbrezza e l’inquietudine della nostra adolescenza e la sua indifesa nuda voluttà. C’è negli uomini un bisogno di esser crudeli con sè stessi, di ritrovarsi frugando e tormentando nelle cose più care e vicine. Il Pascoli è stato odiato da molti, per un istinto oscuro di conoscenza e di libertà; è stato odiato come si odiano solo le cose e le persone che amammo. E dopo la liberazione, torna la tenerezza, come la rugiada dal cielo gelato e deserto.

Ma è inutile parlare di queste cose, che ognuno, che abbia un poco di educazione e di gentilezza, sente da solo; e non ama che gli sien ripetute.

Quel che abbiamo detto del Carducci e di Pascoli, potremmo dire, con misura, degli altri morti, e dei dimenticati, e dei superati; di un Verga, poniamo, che nessuno osa disprezzare, ma che nessuno più cerca — perchè la sua arte e la sua forza schietta non hanno niente di comune con la nostra accidia; e certe parti della sua tecnica le adoperiamo ancora, ma senza sentirne il valore, come cosa banale — o di D’Annunzio e di Croce, in cui di finito e superato non c’è altro che la stilizzazione meccanica, fatta dagli imitatori senza intelligenza, delle loro qualità meno intime: lo pseudo-Croce e lo pseudo-D’Annunzio che hanno trionfato per venti o dieci anni nell’arte e nella cultura italiana.

E come gli abbandoni e le dimenticanze, così sono le risurrezioni e i ritorni.

Che cos’è per esempio il ritorno di Oriani — unica eccezione che notammo nella cosidetta liquidazione dei valori letterari di ieri: naturale