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268 | scritti di renato serra |
vidi, gonfio di sospiri e di silenzio, fatto solo nel solitario universo.
Chi ha detto che sentiamo noia di lui?
È finita la sua maniera; la stilizzazione artificiosa delle sue debolezze, tutta la declamazione tormentata e la illusione inquieta che l’Italia aveva secondato domandato e da ultimo quasi imposto al vecchio uomo stanco, lacrimoso, e smarrito come un bambino. Quel che è superato è l’elemento caduco della sua opera, la parte materiale e ambiziosa, che egli aveva preso dal suo tempo e il suo tempo aveva applaudito e imitato in lui, la sua filosofia e la sua estetica, la poesia ridotta a un’arte di felicità e di conciliazione universale, il sacerdozio moderno del poeta, con il nazionalismo umanitario, gli idilli eroici, il saluto dei proletari e le benedizioni del vescovo, l’epopea delle caramelle di Torino, i sorrisi da augure verso D’Annunzio, gli inni e i vaticini, con l’orecchio morbosamente intento alle lodi o alle voci dei critici: e poi i piccoli gridi, le onomatopee, le lagrimette, le false ingenuità e sopra tutto gli episodi personali, le civetterie della tristezza e della modestia, il cagnolino, il risotto, il vaso di garofani, la finestrina, la cameretta e via via: quello che per il pubblico e per la critica italiana costituiva la fisonomia del Pascoli.
È superato anche, o almeno inesso da parte, se volete, quell’altro Pascoli, di misteri, di idee, di astrazioni, di problemi oscuri e oziosi, che una certa critica s’era fabbricato.
E rimane la poesia. La qualità pura, l’accento unico di quel canto, che è incanto nel cuore; tale, che le contraddizioni e le rotture e i difetti tornano sempre a un principio musicale, che non somiglia a nessuno.