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le lettere | 267 |
mezzo alla fatica di una disciplina volontaria e forzata, inutile qualche volta e commovente nel suo errore.
La invenzione lirica, che fa eternamente verde la sua prosa e fresco e sonante il suo verso; la toscanità maschia, il realismo, la forza fantastica e lieta del gran novellatore, che rimase chiuso in una scuola; e poi l’energia, creatrice di fede, la lezione quotidiana semplice e santa del lavoro, della precisione, del gusto, dello scrupolo, della religione che arrivava fino all’umiltà e alla disperazione dell’arte; la personalità, insomma, che par così contradittoria ed è così salda, del poeta e del letterato, è sempre viva e più dritta che mai. Nè vien meno la sua scuola: chiunque è di razza buona, è dei suoi, anche se lo legga e lo ami senza far vedere. Un accento solo che risuoni dal silenzio del suo studio e delle carte lievemente rimosse («Chi è che lava i candidi cavalli Là da la fonte?») empie l’aria di maschia dolcezza e di luce. E fin che ci sian dei giovani capaci di godere e di soffrire per la poesia, disposti a lottare, a faticare, a odiare se stessi e amare gli altri, a perdersi per ritrovarsi alla fine, su un povero tavolino di legno, il Carducci sarà sempre il miglior manuale di imitazione e di formazione spirituale, la più bella e schietta e benefica storia della letteratura italiana, fatta persona e forza morale.
Così come il Pascoli sarà sempre la più profonda e la più nuova poesia del nostro tempo: l’unico che l’Italia possa mettere accanto ai Verlaine e ai Rimbaud e ai Kipling delle altre nazioni, agli inventori e ai creatori di canti.
Egli è la musica delle nostre sensazioni, la dolcezza del nostro cuore fanciullo, pieno di bri-