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266 | scritti di renato serra |
no italiani, molto spesso, perchè non arrivano a esser francesi. Debolezza e non forza. Come verso le nostre cose di ieri, verso tutti i maestri e gli esempi che abbiamo creduto di metter da parte.
Che cos’è, per fermarsi a un punto solo, che l’Italia d’oggi ha superato nel Carducci? Non lui veramente; ma piuttosto il carduccianesimo, parte più esteriore e limitata e caduca della sua forte natura, la sola che questa nostra educazione meschina potesse intendere, imitando prima e fuggendo poi.
E quello che avevamo raccolto da lui che ci ha stancato e ci pare tramontato oggi: quello che alla nostra lettura volgare e alla nostra critica da dilettanti era sembrato essenziale in lui, la retorica sincera ma superficiale di certe ispirazioni, l’angustia di certi pregiudizi fastosi, la fattura sommaria di certi versi solenni, gli schemi oratorii della critica, i latinismi e le inversioni e il paludamento dello stile, e quel non so che di libresco e di pomposo della sua storia, della sua romanità, della sua civiltà — che erano per noi tutto il Carducci.
Non avevamo capito o imparato da lui altro che la severità della prosa — che del resto è rimasta pur con l’impronta dannunziana successiva — e l’apparato storico e retorico, che ci serve ancora per le occasioni grandi, ma che si è frustrato nell’arte e nell’uso quotidiano, e dà buon gioco alla critica, alla noia.
Ma il Carducci è così lontano da costoro! Egli vive nell’animo di chiunque può aprire il suo libro e conversare schiettamente con lui; con le qualità vergini e libere della sua natura, che paion più forti a chi ne sa intendere l’accento puro in