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262 | scritti di renato serra |
rismo più puro, dicono, un senso ritmico più sottile nei nostri poeti; un realismo più acuto, un impressionismo più personale, una costruzione più sapiente nelle nostre novelle, nei romanzi, c’è una coscienza più sicura, una profondità e una larghezza nuova, una inquietudine più viva nei nostri critici; ma dov’è la gente che sappia scrivere, dove sono i poeti, dove sono i novellatori e i romanzieri, dove sono i critici?
Non vogliamo dei caratteri generici: vogliamo degli ingegni, dei nomi, delle persone vive.
E queste mancano. Mancano, più ancora degli ingegni, le opere felici, le cose belle, le pagine da rileggere; manca quello che ognuno di noi cerca veramente attraverso ai mucchi di carta sporca e ambiziosa, quando è solo con tutta la noia della sua vita e l’inquietudine del suo cuore, lontano dal rumore del mondo, dalle frasi fatte e dalle convenienze vane, libero da ogni imposizione di opportunità o di amicizia, solo e quieto: e allora non si parla più di letteratura, ma di forza e di consolazione.
Da tal punto di vista, pochi momenti sono più ingrati di questo.
Il miglioramento di cui ci hanno parlato è tutto meccanico. Non tocca l’intimo. È, appunto, una cosa comune, nel senso commerciale della parola.
Tutto quello che è d’uso comune è migliorato: le ricette e le ficelles, le formule e le impostature: coloro che cinquant’anni fa si sarebbero contentati di scrivere un sonetto colle rime di amore e di cuore, oggi son capaci di stamparti una novella impressionistica, un poema in prosa convulsa, e subito dopo uno studio di critica estetica. Soltanto, oggi la gente li prende un poco più