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256 | scritti di renato serra |
carducciano, oggi suona in un certo modo!: quasi come dire, quarantottesco.
E così dite del Pascoli. Questo pare un po’ più vicino, più discusso ancora e più considerato dalla critica, che non ne ha risolto interamente i problemi; ma la gente non lo legge, ma le sue cose postume, anche con la giunta di tricromie e di prefazioni e il contorno obbligato di articoli sui giornali quotidiani, passano in una specie di silenzio opaco; ma tutti quegli echi dei suoi versi e della sua maniera, che risuonavano pur ieri nelle poesie dei giovani da un capo all’altro d’Italia, son cessati quasi d’improvviso, come se la gente abbia ritirato dai davanzali quelle tante gabbiette d’uccellini; ma con tutto il dire che fanno i critici sui misteri della sua arte, una noia calma e improvvisa è calata sulla sua poesia, sul sentimento, sulla politica, sul misticismo, sopra tutto quel non so che di dolce e candido e manierato e finalmente passato di moda, che la gente con una parola sola dice: pascoliano. E nessuno vuol metterci una sfumatura spregiativa, ma nessuno per altro dei nostri giovani se lo lascerebbe dir senza proteste: nessuno ammetterebbe di scriver dei versi o della prosa pascoliana, senza un sospetto lieve, non dirò di ridicolo, ma certo di debolezza e di insufficienza. Anche il Pascoli è superato.
Ma forse non accade lo stesso anche ai vivi, anche a D’Annunzio, che ha insegnato a scrivere a tutti gli italiani di oggi, anche a Croce, che ci ha rivelato il mondo del pensiero e della critica?
E inutile qui entrare in minuzie. Ma è certo che così D’Annunzio come Croce, i due autori, da una parte e dall’altra, di questo rinnovamento letterario, autori così immediati ed essenziali che