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severino ferrari 183

fossero, non bisogna che io vi mostri, che assai l’avete di sopra udito»; egli dice: e tira via.

Non parliamo del prete, dei contadini, dei quali non si sente neppure il nome. Tutto l’interesse è nel racconto; gli attori della favola son poco più che caratteri morali, nomi premessi a distinguer la battuta del dialogo.

Dopo di che è inutile ricordare Peppe La Bravetta, Lepruccio, Ciàvola e il Ristabilito e Don Bergamino e Assaù e il capraio e tutte quelle altre figure abruzzesi che spiccano attraverso il parlare del D’Annunzio pronte e salde come le creature conservate nell’ambra delle lontanissime età. Foglie e insetti e ruschi traspariscono perfettamente nel liquido vetro.

Nel racconto del D’Annunzio ogni cosa è viva e piena e rende tutte le illusioni e i sapori della realtà.

Le stelle e i lumi scintillano sull’acqua nella notte gelata; i pioppi sono visibili come il riflesso della fiammata sulla pelle rosea del porco abbrustolato e come la paglia sull’aia indorata dal sole d’inverno; le voci si sentono ognuna con la sua inflessione, e i visi guardano e ammiccano, le gole deglutiscono, mentre l’eco degli sternuti fragorosi e delle ingiurie e il rovinio dei cocci si disperdono nell’aria cheta.

In poche parole, la differenza è grande: essa consiste nella intensità della rappresentazione.

Qui entra in campo un elemento nuovo: poichè si vede bene che a raggiungere questo effetto il D’Annunzio è stato aiutato da un procedimento tecnico alieno: che è quello del Flaubert e specialmente del Maupassant.

Ognuno ne conosce la formula. Si tratta sopratutto di adoperare il dialetto, normanno o