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severino ferrari | 181 |
di giugno a prendere quello che egli come scolare chiama «il suo bagno freddo di classicismo», seduto in maniche di camicia a un tavolino di legno grezzo, leggendo pagina per pagina il Boccaccio e Cicerone e Sofocle, confrontando le parole col dizionario e trascrivendole nei suoi quaderni di «spogli filologici», senza cavare da tutta questa manovra un qualche orgoglio.
A ogni parola copiata egli sente cantare nel cuore tutte le canzoni del nuovo universo di cui ha rifatto dopo secoli e secoli la scoperta, per proprio uso e consumo; allora è naturale che codesto D’Annunzio, che non ha nemmeno cent’anni, sembri ridicolmente moderno e petulante nella sua presunzione. Costui non è assolutamente nuovo e diverso come un Kipling o un Tolstoi; ma si permette di assomigliare ai classici, come un selvaggio simulando le fogge degli uomini civili.
Ciò non ha molto a che fare con la Fattura. Essa mi fece trasalire di meraviglia stizzosa. O quello là dunque si crede che noi non abbiamo mai letto il Boccaccio?
Qui è inutile descrivere come il Boccaccio io lo leggessi allora per mio conto, dopo averlo sentito leggere al Carducci e a Severino.
Dirò seguitando che la mia ingenuità non riusciva a formulare la risposta netta: Costui sa bene quello che noi abbiamo letto. Ma se ne infischia.
Tuttavia ne avevo qualche presentimento. Capivo che aver nominato il Boccaccio non bastava a escludere D’Annunzio: restava, anche dopo la imitazione, un problema d’ingegno e di bravura e di fatica nuova da intendere.
Ma mi fidavo a certe argomentazioni grandi e vaghe. Imitazione, coloritura di disegni altrui; uso artificioso del dialetto; minuzie realistiche