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66 | scritti di renato serra |
da perdere ogni segno proprio e ogni interesse: ma abbastanza per riuscirci, in quel tramutamento tenue e bizzarro di cose tutte famigliari, piacevole. V’ha poi una scena al castello degli Elci, su nell’Alto Appennino («in quelle solitudini dove non si udiva se non il muggir delle mandre e le grida che mandano i venti passando nel loro viaggio vertiginoso»), degna di speciale ricordo. È la prima notte di due timidi adolescenti, su cui la paura, alitando notturna nelle vecchie sale del castello, operai quel che solitudine e amore insieme non aveano saputo. Alle linee e alle figure leggiere manca solo un tocco, un alito, un nulla per uscir libere e vive dagli ultimi ritegni della maniera.
Nè questa scena è sola. Ma dovunque la mano dell’artista ha avuto ventura di calcar meno insistente, dovunque un’esile trama o reale o fantastica può rivelarsi, pare che una grazia particolare l’accompagni. Ricorderò la novella di Pirigiuli, il campanaro che rinnova, non senza efficacia propria e forse con più gentilezza psicologica, la difformità e l’amore di Quasimodo. E se lo spazio mi consentisse vorrei mostrare la bellezza, non importa se disuguale o imperfetta, del Gioco, dove indimenticabile è la visione delle belle pescatrici danzanti in una limpida mattina torno torno al povero gnomo attonito, nella gaiezza serena e crudele della loro gioventù trionfante. Vorrei ricordare la figura del vecchio novellatore che incanta i bimbi con le vecchie fole. Ma la più bella forse è quella, delle Figlie di Iudèc.
Sono tre belle giglie della montagna, votate dal padre a perpetua verginità che le consuma; e scendendo per guarire alla marina di Cervia il dì di San Lorenzo, il mare è galeotto alla lor vo-