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54 | scritti di renato serra |
gagliardia ch’esse temessero». Noto soltanto che quelle immagini di fiamme e di tenaglie sono nate dall’aggettivo: che, sulla carta scritta, ha nascosto le figlie del mare.
«Sotto il vento, sotto le grandi tempeste passavano indifferenti, le chiome scompigliate, superbe nella perfetta linea della loro magnifica persona ».
La bella immagine risorge; e con essa un desiderio di rappresentarne tutta la bellezza nel canto, un ardore che si esalta a un tratto e prorompe con foga vasta.
«Gaie e selvagge; dal colore del grano e delle arene e del ferro; dai candidissimi denti che ponevano, sul vermiglio delle tumide labbra e sul tono caldo del volto, improvvise dolcezze nel sorriso che trasfigura (!); passavano come le procellarie dal volo possente, tutta animando l’amara vastità della landa e la verde solitudine del mare. Nel loro cuore era la placida indifferenza dell’infinito e, negli occhi, il saettare della luce». Ho sottolineato quel che mi suonò più volgare; ognun vede come l’impeto lirico iniziale, oppresso dalla macchina pesante del periodo, fatto torbido per luoghi comuni, vada infine quasi a perdersi nel vuoto. S’ha come una pausa, e poi, una bella strofe.
«Gole d’oro, occhi di smeraldo, verdi, vivi di bagliori metallici, esse cantavano, come in maschia sfida, dall’aurora ai pallidi crepuscoli, ininterrottamente a simiglianza del grande mare del quale erano figlie; cantavano al piacere, all’offerta, senza la vereconda ipocrisia delle vecchie fole».
Qui c’è, almeno fino a un certo segno, vita, movimento, splendore; il poeta ha quasi vinta