O dieci cinque, ed a quel grado in cima
Tutti salgono pronti e fermi stanno; 335Che lo sbalzarli inutil fôra, come
Se neghi all’onda di cercare il piano.
All’appetito indomito prevalga
Il lume di ragion, che non consente
Gl’improvidi connubi, onde la speme 340Dei cari figli nel paterno lutto
Tosto si volge. La baldanza cieca
Colla pallida inopia intorno gira,
L’aura assordando di frementi strìda.
Chi nell’immondo suo lezzo si accascia 345Novello bruto; chi misero langue
Non estinto nè vivo, e chi si getta
Ferocemente colle mani ladre
A dar nel sangue e nell’aver di piglio.
Io so che l’arte, il senno e la fatica 350Di nove mèssi biondeggiar faranno
A nuove genti la deserta arena,
O la maligna e livida maremma.
Ma lunga è la fatica, e l’arte è lenta,
E tardo il senno, od il soccorso vano. 355So, che il commercio libero dispensa
Ad una schiera quel che all’altra avanza;
Ma se l’umana razza ogni confine
In ogni parte traboccando ecceda,
Non uscirà dal pelago profondo 360Ignoto campo che maturi al Sole
Novelle biade. Lacera e digiuna
Dunque al soffrire più che al viver nata
Sarà la plebe pullulante e sozza?
Il prevedere e il prevenir si dona 365A noi, cui l’immortal raggio balena
Nella mente, che vede e vuole e sceglie,